GRAVEDONA – Valeria Gradinati 27enne di Gravedona, ora emigrata a Minneapolis per lavoro, “cervello in fuga” come in molti la definiscono, in quanto in Italia, con le sue specializzazioni professionali, non c’è un lavoro per lei.
Ecco, di seguito, il racconto a tratti ironico – ed autoironico – della sua esperienza distante, molto distante da casa.
Mettetevi comodi. Sedetevi sulla vostra poltrona più morbida, possibilmente di fronte ad una finestra, illuminati dalla luce naturale e, se non è chiedere troppo, in prossimità di un fuocherello scoppiettante. Il rumore, ma soprattutto l’odore di un fuoco vivo hanno sempre avuto un grande impatto sulla mia mente. E in un secondo spaccato, mi sento trasportata indietro nel tempo, nella casa della nonna, in attesa dell’arrivo della mamma per riportarmi a casa a fine giornata lavorativa. Cicche Brooklyn prese ai distributori automatici dell’Ospedale “Moriggia-Pelascini” per la bambina e tacco squillante nel corridoio con mattonelle in ceramica di Villa Carmen. La mamma è arrivata. A quei tempi, la mia gamba era lunga al massimo come una delle mie braccia in questo momento e la mia più grande preoccupazione era il compitino di scienze del giorno dopo.
Il potere evocativo dell’olfatto non ha pari.
Ora, un respiro profondo e pronti a leggera una storiella di una persona, una delle sette miliardi disponibili su questa Terra. La mia speranza e la mia promessa per ciò che segue è un intrattenimento introspettivo, uno spaccato di verità quotidiana che contenga una storia completa, personale, positiva, ma soprattutto reale. Non solo sole, cuore e amore, ma anche difficoltà, ostacoli, lotte, sangue e sudore, è mia opinione che nessun’altra premessa potrebbe essere più adatta per incoraggiarvi a continuare questa lettura sulla conclusione di questo interminabile 2020.
Gravedona, 10 Maggio 1993, ore 7 di mattina. Boom. Inizia la mia parentesi mortale. Nasco velocemente, rotondeggiante e probabilmente affamata, se posso tirare ad indovinare. Un’infanzia tranquilla e serena, permessa da un nucleo familiare compatto e affettuoso di cui sono da sempre grata. Il percorso è pre-impostato: dalle elementari alle medie, poi il Liceo Nervi a Morbegno, la prima biforcazione e la prima scelta sul mio percorso educativo. Non ho molti ricordi a riguardo, sono abbastanza certa di aver deciso rigorosamente alla vecchia maniera: a caso. E via, cinque anni di Liceo Scientifico PNI. Una scelta di cui non mi pento, una preparazione valida che mi ha supportata nella continuazione degli studi, ma più di tutto un’esperienza di cui ho ricordi bellissimi, di cui alcuni “vivi, respiranti ed ambulanti”. Penso, in italiano, siano chiamati “Amici” (sì, con la A maiuscola).
Il gioco si fa ora più complicato. Cosa faccio da grande? Tabula rasa. Tutt’ora penso che fare quella domanda a quell’età non sia politicamente corretto. Per quanto adulta mi potessi sentire allo scoccare dei miei 18 anni, altro non ero che una bambina, cosa che, per natura di tutte le cose, ho realizzato solo qualche anno più tardi. Alcune persone nascono con un percorso in testa, pianificano minuziosamente i loro passi, lavorano in direzione di un obiettivo preciso, senza esitazioni. Lo so, le ho incontrate. Poi ci siamo noi comuni mortali. L’unica cosa a cui io personalmente mi sia mai potuta affidare è stata il mio istinto, che ho imparato ad amare incondizionatamente.
Il mio istinto disse “CHIMICA, penso che chimica mi piacerà molto”. Parte di ciò potrebbe essere nato dai miei esperimentini giovanili con la scatola de “Il piccolo Chimico”, dove cavalcando la mia fantasia immaginavo di creare super-fertilizzanti per le piante. Sì mamma, scusa, la tua pianta preferita l’ho uccisa io. Ma avevo le migliori intenzioni. Ora, la domanda che mi posi subito dopo fu “Come posso cercare di fare una differenza in un mondo che non ha bisogno di me per continuare a girare?” Con un papà medico, la risposta immediata è stata medicina. 2+2 = Chimica farmaceutica. Stop. Un’intuizione, pochi minuti, e il dado era tratto: una nuova avventura, zaino in spalla, destinazione Milano. Le sfide: trovare appartamento, coinquiline, passare il test, sopravvivere. In questo ordine. Logica vorrebbe che la voce “passare il test” fosse in cima. Raramente le priorità seguono un ordine cronologico sequenziale e sensato. La vita vuole diversamente. Immagino che stiate silenziosamente annuendo in segno di approvazione per questa ultima ovvietà.
Tutto bene. Entrata. Cinque anni e mezzo si srotolano in fronte ai miei occhi in questo momento. Studi complessi, ma che ho amato. Persone incredibili con cui ho vissuto o che ho semplicemente incontrato sul mio percorso. Contatti che custodisco tutt’ora gelosamente, anche se a distanza. Impegno, dedizione, ma anche divertimento e sfizi selezionati per celebrare i miei sforzi e i miei piccoli successi. Premiarmi alla fine di una lunga e perigliosa sessione di esami è stata la mia arma migliore per tenermi in carreggiata.
La mia vita è sempre stata molto altro rispetto che ai miei studi, la mia curiosità non si è mai limitata alla didattica. Un buon esempio potrebbe essere la musica: dai primi goffi ed infantili tentativi nell’azzeccare quel maledetto re al terzo tasto sulla chitarra “dei grandi”, ai miei strazianti (ma vincenti) tentativi da autodidatta sul piano della nonna, fino ad arrivare alla scoperta delle percussioni negli ultimi anni del liceo.
Che dire, la noia non è mai stata di mio gradimento. Più tardi, raggiunta la maggiore età ho poi scoperto ancor di più la mia passione per i viaggi (con amici o in solitaria) e le inerenti attività di imparare e di affrontare i miei limiti a cuor leggero, col sorriso pronto, cose che da sempre schiaccio nella mia valigetta coi vestiti pregando di non sforare con il peso del bagaglio all’aereoporto. Più accrescevo la mia esperienza, più capivo che nessuno nasce “imparato”. Una volta internalizzato questo concetto, ridere di me stessa e dei miei errori mi ha portata ad essere capace di andare oltre e conquistare quelle barriere fondate su insicurezze che esistevano solo nella mia testa. Il chiaro segno che i miei anni da teenager erano finiti e che l’adulta che sarei diventata sarebbe stata un’avida ricercatrice di sfide.
Estate 2016. è un giorno caldo, tanto caldo da far fumare il cemento delle strade di Milano e far appicciare le mie cosce alle panche ombreggiate di Piazza Leonardo più velocemente e dolorosamente di quando mi piaccia ricordare. Il pensiero dei miei neo-scoperti lontanissimi parenti americani mi balza addosso senza preavviso. Tutti biondi, occhi azzurri, pelle chiara… Insomma, uguali no? A essere generosi il DNA condiviso a parità di aspetto è al massimo lo 0.001%. Ma questo poco importa. Infatti, se c’è una cosa che ho imparato in fretta è che gli americani sono perennemente alla ricerca delle loro radici e della loro identità etnica. Ne vanno fieri – e hanno una bella cotta per gli italiani. +100 punti per Miss Gradinati l’aspirante turista.
Un guizzo di energia, un desiderio, una email. Il risultato? Un invito: “Si, vieni a trovarci”. Una settimana dopo, eccomi partire su un aereo alla volta del Kentucky, una meta curiosa (eufemismo all’ennesima potenza) per un primo viaggio negli USA. Arrivo, non so cosa aspettarmi ma cerco di prepararmi psicologicamente allo shock culturale. Prima conversazione: capisco cosa mi dicono, sono pronta, sono fiduciosa, ce la faccio, posso comunicare facilmente. Tempo di spiaccicare le mie prime parole. Una calzetta bagnata, strizzata, e buttata in un angolino della casa avrebbe potuto dimostrare più carisma, giuro. Capire non significa saper parlare. Tempo di rimboccarsi le maniche, ascoltare ed imparare. Per supportare questo sforzo mentale, sono stata cortesemente sostenuta dalla mia “cugina” ultraottantenne a suon di bacon e fritti per circa un mese. Ci sono cose che sto ancora cercando di digerire, ma nulla per cui lo sforzo digestivo non sia stato ben investito.
Durante il mio soggiorno – durato un mese circa – balbetto, rido, imparo, viaggio, esploro la cultura americana e me stessa al di fuori della mia zona di conforto. Certo, questo dopo aver superato lo shock del vedere in prima persona che tutto quello che si vede nei film è vero. Pazzia. Quest’esperienza mi ha segnato profondamente. In particolare, l’accoglienza, la gentilezza e la generosità dei miei remoti parenti nei miei confronti, una semi-sconosciuta con un accento buffo, ha lasciato un marchio nel mio cuore ancor più indelebile di quello sul mio passaporto. Riparto da New York per tornare in Italia. Saluto l’America con un cenno. Ci rivedremo.
Rientro. è il mio quarto anno, tempo di iniziare a pensare alla tesi del quinto. La mia facoltà, Chimica e Tecnologie Farmaceutiche” (CTF) impone un anno nell’ambito della ricerca di base come prerequisito per laurearsi. Si apre così la caccia alla tesi perfetta. Il numero di porte che in quel periodo mi sono state chiuse in faccia ha troppi zeri per poter essere pronunciato e tanti altri studenti potrebbero raccontarvi la stessa storia. Ma ciò che importa alla fine non è quello che avrebbe potuto succedere, ma quello che è successo. Scopro dell’esistenza di un programma all’estero, negli USA, precisamente a Minneapolis, Minnesota. Senza troppo indugio applico supportata da solide basi di zero conoscenza della locazione geografica o delle insidiose sfide climatiche sottese dalla parola “Minnesota”.
Potrei dirvi che sono stata selezionata, che sono passata davanti a tanti altri e che me lo sono meritata. Invece vi dico che, grazie alla mia testa sulle nuvole, ho quasi perso il colloquio di selezione, a cui sono riuscita ad arrivare ansimante e sudaticcia solo grazie ad una corsa così veloce da far invidia ad un olimpionico, scatenata da una chiamata della mia futura relatrice di tesi che, con voce alterata, mi chiedeva dove diavolo fossi e cosa stessi aspettando a presentarmi di fronte al comitato. Persona giusta + momento giusto + posto giusto = opportunità. Manca un termine in questa equazione: il mio carissimo amico conosciuto come fattore C, come lo chiama in amicizia Lucianina Littizzetto su “Che Tempo che Fa”. Direi che in questa occasione si sia meritato un applauso lungo quanto quello dedicato a Fantozzi per la sua recensione della Corazzata Potemkin.
Inizia un altro anno indimenticabile. Dopo tutta l’emozione e la disperazione burocratica insita nel processo di ottenimento di un visto, mi ritrovo finalmente seduta sul volo Amsterdam-Minneapolis il 13 Gennaio 2017. La realtà mi colpisce come solo il soffitto inclinato del mio sottotetto sa fare: forte e male. Inizio un monologo interiore: “Ma perché? Cosa pensavi di fare esattamente? Sotto i 20 gradi metti sette magliette, due felpe e quattro giacche… ma hai presente che dove stai andando davanti al 20 di solito c’è un meno? Ah, e non so se lo hai notato, ma ti hanno rubato il cellulare (di nuovo) sul volo Milano-Amsterdam…”.
Ricordo questo momento in modo molto vivido. Altrettanto vividamente, ricordo di aver concluso questa parentesi di panico mentale ridendo tra me e me, liquidando tutto con un “Massi che ne so, in qualche modo capirò… Che si mangia?”. Questo è il perfetto ritratto della mia vita, in generale. Se potessi nascere di nuovo, chiederei un cervello più collaborativo e meno incline alla divagazione.
Tempo di srotolare un altro ricordo, quello del 2017. Un bottino non indifferente: l’avvicinamento alla ricerca preclinica americana e le sue risorse attraverso lo studio di vaccini contro gli oppioidi, un’invidiabile esplorazione degli Stati Uniti, incredibili nuove amicizie. Un riavvicinamento alle mie radici inaspettato: sono partita, come tanti, con l’intento di passare il mio tempo con tutti meno che con “i soliti italiani” per poi ritrovarmi a ricercare una connessione che solo un altro immigrato avrebbe condiviso. E così, con “i soliti italiani” ci sono finita per scelta e non per imposizione. Sono tornata con un bagaglio di esperienze che mai avrei immaginato di poter formare in meno di 12 mesi e dati sufficienti per una pubblicazione, una bella soddisfazione. A dirla tutta, mi ero portata dietro anche un jetlag importante e un ricordo di clavicola elegantemente rotta in uno scontro in bicicletta con un Minnesotano pompato e successivamente riassemblata da madre natura con chiare influenze Picassiane. Ma questa è un’altra storia.
Mi laureo il 16 Marzo 2018, una giornata piena di emozione, condivisione e fierezza. Non è ancora il momento di lanciarsi nel mondo del lavoro, la priorità va all’esame di stato per farmacisti. La mia mente era semplicemente esausta dopo più di cinque anni di studio su studio su studio, esami su esami su esami. La stanchezza mentale si faceva sentire, la prontezza nell’apprendimento mi aveva semplicemente abbandonata. La mia fortuna era stata studiare con i miei ex-compagni e amici di corso. Senza di loro, non ci sarei riuscita. L’inferno finisce, lieto fine per tutti. Vacanze.
Ora è arrivato il momento di cercare un lavoro. Non credo esista un processo più doloroso e a cui, una volta usciti dall’università, un ex-studente sia meno preparato. La motivazione iniziale scema velocemente. Le mie ambizioni mi fanno candidare a programmi internazionali per grandi aziende farmaceutiche. Le mie credenziali sembrano non avvicinarsi abbastanza ai requisiti minimi, non faccio altro che accumulare rifiuti. Il processo che si spinge più avanti è quello per una mia candidatura erronea come ingegnere gestionale… Che cosa io centrassi con quello ancora non l’ho capito, ma lo trovo buffo tutt’oggi.
Così inizio i miei colloqui in Italia. Vengo richiamata sì. I lavori, di partenza, non mi entusiasmano, tutti nel settore di controllo qualità o produzione , cose che il mio istinto riconosce come “ostili” al mio essere. Stipendi miseri, pretese massime. Mi sento dire un giorno” Dovresti ringraziarmi perché ti sto offrendo un lavoro” con un’offerta di 400 euro lordi al mese e obbligo di trasferimento in zona. Senza altri commenti, lascerò la mia reazione, fin troppo cortese, alla vostra fantasia. Segue un colloquio con un’altra azienda. Stavolta, l’intervistatore è un Manager che mi sottopone ad una bella interrogazione di chimica organica e a mille altre domande per almeno due ore. L’antifona è la stessa, ma presentata con un rispetto diverso. “Si, l’internship verrà pagato poco, purtroppo funziona così per tutti anche se è ingiusto. Poi però potrai progredire velocemente se lo vorrai”. Il lavoro mi piace, il Manager anche. Una persona onesta e rispettosa a cui mi sento di fare una domanda determinante. Due giorni prima, il mio ex capo del Minnesota (Dr. Marco Pravetoni) mi aveva richiamata per offrirmi un lavoro. Decido di mettere questo fatto sul piatto della negoziazione con il Manager e domando: “Quali possibilità ho di ottenere questo posto?”. La risposta: “Le esigenze del management potrebbero cambiare e il processo di selezione richiede mesi. Se hai un’offerta dall’America pensaci bene, non buttarla”.
Pur conoscendo la mia decisione in un quarto di secondo una volta ricevuta la chiamata col prefisso internazionale +1 (USA), ammetterlo a me stessa ha richiesto almeno un paio di settimane. Questo tipo di decisioni possono stravolgere la vita di una persona per sempre e io ne ero ben consapevole. Questa volta non avrei avuto la protezione di una scuola o l’idea di un’avventura con una scadenza. Questa volta era per davvero. Pizzicotto. Ancora vero. Più forte. Comunque vero. Ahia! Va bene, mi hai convinta.
La disillusione della realtà sperimentata nella ricerca di un lavoro in Italia e della difficoltà nell’entrare nel mondo del lavoro nel resto dell’Europa sono stati fattori importanti, ma quello che ha determinato la mia decisione è stato riflettere su cosa mi avrebbe fatto felice, gli ipotetici scenari futuri. L’idea di rimanere in un maggiore comfort, in un ambiente più familiare, mi soffocava. Non ero pronta a quel passo. Quello che mi mancava non era trovare risposte, ma trovare più domande. E così ho dato il via ad una procedura per ottenere un visto che sarebbe durata 4-5 mesi.
Mi godo casa, famiglia, libertà. La gioia dell’avere uno scopo e di non poter far altro nel frattempo. Una boccata d’aria fresca dopo un periodo di pura frustrazione. Un sogno, certamente, almeno per un po’. Tutto finisce e io torno ad essere irrequieta. L’iperattività è un mio maledetto tratto caratteriale. Corsi, lezioni online, stimoli per non annoiarmi. D’altronde, tutti i miei amici al momento lavoravano. Sì, io ero la più rilassata di tutti, ma al costo di dovermi tenere occupata per i fatti miei sempre e comunque. Suona meno peggio di quello che poi realmente è. Arriva il giorno in cui il papà fa una domanda in più a tavola e io mi scateno nelle spiegazioni scientifiche che sottendono l’affascinante campo della nutrizione. Nasce una nuova idea.
Mi reco nell’ufficio di Caterina Bongiasca, che accetta cortesemente di vedermi accogliendomi con un grande sorriso. La mia premessa è ancora una volta poco lusinghiera e molto terra-a-terra: “Non sono un medico. Non sono una nutrizionista. Ho una laurea in CTF e sono appassionata di nutrizione. Ne so abbastanza per poter gestire un mini-corso alla portata di tutti”.
Nasce “Educazione alla Nutrizione”, un progetto pensato per educare, appunto, sulla sana alimentazione attraverso una comunicazione fatta di concetti scientifici veicolati in toni divertenti e leggeri. Un mix tra una lezione accademica e una stand-up comedy. Col supporto del Dr. Giorgio Baratelli e della LILT, il progetto inizia: è la prima serata, il Centro conferenze è pieno, la gente è curiosa. Inizio, parlo, mi lascio andare. Rimango me stessa per tutta la durata del corso. I partecipanti fanno il resto. Il tempo si ferma per un istante e io rivaluto tutto quello che avevo pensato sul mondo del lavoro in Italia. Ripenso alla fiducia che è stata posta in me e a quella sfida che mi ha portato così tante soddisfazioni e riconoscimenti. Guardo il mio Paese con occhi diversi. Puoi ricevere infiniti no, ma tutto quello che serve è solamente un piccolo sì.
Il visto arriva. L’avventura da conferenziera, per il momento, si conclude. L’aereo e il monologo interiore mi attendono, per una seconda volta.
Tornare a Minneapolis è stato come tornare in una seconda casa. Atterrare e rivedere la skyline di Downtown, o le casette a Northeast, dove vivo al momento, è stato come aver rincorso un eco che mi chiamava dal fondo di un tunnel del quale avevo raggiunto la fine. Devo molto a questa città, nonostante i geloni che mi ha procurato durante il suo terribile inverno. Quelli, per essere chiari, rimangono imperdonabili. Quante volte ho sentito e ancora sentirò i polmoni ghiacciare ad ogni respiro, i capelli irrigidirsi in pose buffe e i peli del naso congelare uno a uno. Quantomeno, ora ho imparato a non togliermi la sciarpa troppo velocemente: l’ultima volta quel gesto mi è costato la perdita della pelle ghiacciata a contatto con il tessuto. Ammetto che questo specifico avvenimento non rientrava nella top ten delle esperienze che desideravo avere prima dei 30 anni.
Il mio titolo attuale è ricercatrice. Appena arrivata ho lavorato maggiormente come tecnico. Poi, sono passata al Project Management ottenendo un certificato apposito, e al momento sono impegnata nell’approfondimento del settore Medical Affairs. Il mio interesse sta scivolando in direzione della clinica e del contatto con i medici ed i pazienti.
In questo anno disastroso, oltre che alla ricerca sugli oppioidi ho avuto modo di entrare nella corsa dello studio al COVID e sintetizzare un vaccino. Nulla che mai vedrete in clinica, ma un progetto comunque interessante e nuovo, utile per combattere il sentimento di impotenza ed isolamento che ha accompagnato molti di noi quest’anno. A livello lavorativo, non mi posso lamentare. Ho avuto grandi soddisfazioni concretizzatesi sotto forma di una promozione e qualche pubblicazione, di cui una a primo nome.
Nonostante ciò, la pandemia mondiale non mi ha dato tregua. Per una persona affamata di dinamismo, la staticità è probabilmente la criptonite più grande. Il bisogno di evadere, di esplorare nuove possibilità, non mi ha mai lasciata e ha solo peggiorato lo stress e la paranoia causate da questi tempi incerti. Oltre a ciò, gli attacchi contro i visti da parte del Presidente Trump hanno rinforzato i miei sentimenti alienanti. è brutto non sentirsi invitati o benvoluti in un paese, davvero tanto. Ma non era abbastanza: i mesi prima delle elezioni presidenziali sono governati da eventi strettamente legati a temi di propaganda ed ingiustizia sociale. Il più forte di questi è stato il caso George Floyd. Una guerra civile vera e propria a Minneapolis. Interi edifici bruciati, persone sfrattate e accampate nei parchi, coprifuoco, militari dappertutto. Un evento tragico seguito dal chaos più completo. Che tu sia dannato 2020.
Mi guardo indietro e non mi pento della mia scelta. L’unica realtà che esiste è quella in cui sono ora. Il qui. L’adesso. Tra le tante sfortune, ho avuto anche tante benedizioni. I progetti per quest’anno sono solo rimandati. I ricordi di momenti difficili svaniranno nel tempo e lasceranno il posto ad altro. Il Natale quest’anno, lo passerò con la mia famiglia acquisita di Minneapolis, nella mia bolla fatta di affetto e comunità e nel totale rispetto delle precauzioni anti-COVID. La lontananza da casa picchia forte di tanto in tanto, ma nulla è cancellato, tutto è solamente rimandato.
E stesa sul mio divano alla luce dell’albero di Natale, penso e viaggio con la fantasia chiedendomi cosa ne sarà di me, cosa costruirò nel mio futuro e se mai troverò il mio posto felice dove forse, vorrò stabilire una famiglia. Se mai sarò contenta nella mia carriera attuale o se mollerò tutto per aprire un bar di drink in noci di cocco e ombrellini di carta in qualche posto esotico. E mille Valerie future con mille occupazioni diverse e mille vite diverse si proiettano nella mia testa. E sorrido. E mi alzo. E vado a vedere cosa c’è nel mio frigorifero. I viaggi mentali mettono fame. In qualche modo, andrà tutto bene.
Dalla collezione autunno-inverno 2020 delle “lezioni imparate” di una ragazza di provincia qualunque imbarcata in un’avventura il cui significato “si aprirà alla chiusura”, vi lascio, con queste parole:
“Il momento giusto per fare ciò che desiderate non è domani.
Nemmeno oggi.
Era ieri”
Valeria Gradinati