ROMA – Oggi la Polizia di Stato celebra i 40 anni della legge di riforma. Il 1 aprile 1981 è infatti stata promulgata la legge 121 che ha “smilitarizzato” il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, costituito la Polizia di Stato come prima forza di polizia civile a competenza generale e ridisegnato il sistema della Pubblica Sicurezza del Paese.
Il Dipartimento di Pubblica Sicurezza ha voluto evidenziare l’importanza della ricorrenza con un libro dal titolo “La riforma dell’Amministrazione della pubblica sicurezza” del prefetto Carlo Mosca, scomparso purtroppo pochi giorni fa, che di quella riforma è stato uno degli ispiratori. Dopo il messaggio del Presidente della Repubblica Mattarella, quello del Ministro dell’Interno Lamorgese e del Sottosegretario Franco Gabrielli, nei dodici capitoli del libro si snodano i temi più significativi di quella riforma lontana nel tempo eppure ancora cosi attuale.
Ogni capitolo si arricchisce del contributo di riflessione da parte di una personalità del mondo religioso, scientifico, politico o istituzionale: il cardinale Gianfranco Ravasi approfondisce gli aspetti del “servizio”, il ministro Marta Cartabia quelli del ruolo delle donne, il procuratore generale Giovanni Salvi l’introduzione del ruolo degli Ispettori, Michele Ainis i sindacati, Gianni Letta l’ordine e la sicurezza pubblica e poi ancora Giuliano Amato, Marino Bartoletti, Eugenio Gaudio, Annamaria Giannini, Gaetano Manfredi, Antonio Romano, Maurizio Viroli. Sono 181 pagine ricche di immagini, anche storiche, che ricordano il passaggio da amministrazione militare di polizia ad amministrazione civile di garanzia, illuminata dallo spirito e dal dettato della Costituzione Repubblicana, al servizio dei cittadini e delle Istituzioni democratiche del Paese.
Messaggio Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
I quarant’anni della legge di riforma dell’Amministrazione della pubblica sicurezza coincidono con un altro anniversario che il 2021 ci consegna: i 160 anni dell’Unità d’Italia. Sono ricorrenze tra loro intimamente collegate. La Polizia è uno dei volti dello Stato. La storia della Polizia è parte del racconto della edificazione dello Stato unitario, ne ha seguito l’evoluzione costituzionale garantendo lealtà nello svolgimento dei suoi compiti di autorità preposta al mantenimento dell’ordine pubblico.
La legge 121 del 1981 è caposaldo vivo e vitale dei nostri tempi: ha rapportato l’agire della Polizia nella società ai valori della Costituzione repubblicana, affidandole una missione non dissipata in un compito meramente securitario, bensì proiettata esplicitamente verso la cura dell’ordine democratico del Paese.
Una funzione scolpita nell’art. 24 quando, al primo posto tra i compiti della Polizia di Stato, troviamo indicata la tutela “dell’esercizio delle libertà e dei diritti del cittadino”.
Questa nuova ontologia, già rintracciabile nel ruolo affidato alla Polizia di Stato sin dall’inizio della stagione repubblicana, si fa palese e si rafforza proprio con la legge del 1981 – approvata dal Parlamento con un largo concorso sia delle forze di maggioranza sia di quelle di opposizione – offrendo maggiore luce al ruolo delle donne e degli uomini impegnati “al servizio delle istituzioni democratiche”.
La Polizia nel contesto costituzionale si pone come presidio di sicurezza che concorre a rendere vera la libertà di esercizio dei diritti garantiti dalla Carta fondamentale.
I principi ispiratori della riforma – che vanno quotidianamente vissuti per renderla effettiva – hanno contribuito a ribaltare l’immagine antica – forse mai totalmente rispondente alla realtà – di un corpo dello Stato vocato a funzioni puramente repressive per imporre un ordine gradito al potere di turno.
La polizia moderna nella logica costituzionale propria della riforma dell’81, è oggi un corpo dello Stato che i cittadini riconoscono come amico, accessibile ed aperto, elemento di coesione.
Una ‘empatia democratica’ guadagnata sul campo anche nei giorni durissimi di questo annus horribilis appena trascorso, ma nata negli anni difficili del terrorismo, nutrita, nei lunghi 40 anni dall’introduzione della riforma, dal lavoro e dal sacrificio dei suoi componenti. Un impegno lungo che ha prodotto così i suoi effetti.
Uno dei caratteri più significativi di quella riforma, che introdusse principi moderni sia dal punto di vista organizzativo – si pensi alla dimensione dipartimentale – sia valoriale- si pensi alla parità di genere nella struttura del Corpo – è rappresentato dalla attuazione del fondamento pluralistico.
La parola pluralismo fa parte di una endiadi indissolubile con la parola democrazia e richiama il lemma latino plus, che evoca l’idea di “incremento”.
Il pluralismo implica incremento di democrazia e la Polizia di Stato recepisce questo principio facendolo elemento costitutivo. Una struttura inclusiva, con il pluralismo delle voci sindacali, il metodo meritocratico, la parità di genere sancita per la prima volta nell’impianto normativo delle amministrazioni pubbliche, con chiari riferimenti alla sua realizzazione con parità di attribuzioni, di funzioni, di trattamento economico e di progressione di carriera per il personale sia di genere maschile sia di genere femminile.
La capacità di operare in organismi interforze, di interagire con i territori, di porsi come struttura flessibile in grado di rispondere all’evoluzione della società italiana sovvenendo ai nuovi bisogni di tutela che essa pone, rappresentano ulteriori caratteristiche dell’assolvimento pieno del concetto di servizio che connota l’identità delle forze di Polizia e che si declina perfettamente col servizio alla democrazia costituzionale che è intrinsecamente pluralista e significa, dunque, servire tutti i cittadini e nel rispetto dei diritti di ognuno.
Per i tanti fronti di impegno, memori dei sacrifici e del prezzo di vite pagato nell’assolvimento dei compiti, rinnovo la riconoscenza della Repubblica a tutti gli operatori della Polizia chiamati a vivificare ogni giorno la missione loro assegnata dalla Legge perché, come recita il loro motto: “Sub lege libertas”.
Donne, la svolta della legge 121 – Una delle più importanti tappe della riforma che sancì l’eguaglianza con i colleghi uomini, commentata da Marta Cartabia, Ministro della Giustizia
Una data storica quella che vide 62 anni fa la comparsa delle quote rosa in polizia: era il 1° marzo 1961 quando entrarono in servizio le prime ispettrici appartenenti alla carriera direttiva del nuovo Corpo di polizia femminile, istituito con legge n. 1083 del 7 dicembre del 1959, creato su indicazione dell’allora capo della Polizia Giovanni Carcaterra. Quattro mesi dopo furono affiancate dalle assistenti di polizia, appartenenti alla carriera di concetto dello stesso Corpo.
Le poliziotte, assegnate a uffici come quello di Polizia femminile, la Sezione minori o le Squadre buoncostume delle questure, avevano incarichi specifici che riguardavano il contrasto dei reati nei confronti di donne e bambini, reati contro la moralità pubblica e a sfondo sessuale. Spesso le prime poliziotte venivano impiegate anche per la tutela del lavoro minorile e femminile, le indagini e gli atti di polizia giudiziaria che riguardavano le stesse categorie di persone, nei confronti delle quali svolgevano compiti di vigilanza e di assistenza per i provvedimenti di polizia (se i minori erano in stato di abbandono morale e sociale, come il contrasto all’evasione scolastica.)
Non si può dimenticare l’impiego massiccio della polizia femminile in occasione di calamità naturali: ispettrici e assistenti per la prima volta intervennero per il terremoto nella valle del Belice (1968), di Tuscania (1971), di Ancona (1972) e in quelli, disastrosi per numero di vittime, del Friuli (1976) e dell’Irpinia (1980).
Poteri e mansioni particolari quelli delle prime donne in divisa, ma anche limitati: «Il raggiungimento della parità con i colleghi uomini – scrive il prefetto Carlo Mosca nel suo libro sulla riforma – è stato uno dei primi obiettivi, nell’osservanza del dettato costituzionale, di cui all’articolo 51, secondo il quale tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza». Decisiva è stata anche l’entrata in vigore, alla fine del 1977, della cosiddetta “legge Anselmi” che vietava qualunque discriminazione, anche indiretta, fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in qualunque settore o attività professionale. Un percorso articolato e complicato quello relativo alla parità di genere: «Finalmente – sottolinea Mosca – nel 1981, la riforma attuata con la legge 121, nel disporre lo scioglimento del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza e del Corpo di polizia femminile stabiliva che il relativo personale, unitamente con quello appartenente ai ruoli del personale civile della carriera direttiva dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, confluisse nei ruoli del personale della Polizia di Stato». Era caduta l’ultima barriera: la riforma aveva così sancito la piena equiparazione tra personale femminile e maschile, con parità di attribuzioni, funzioni, trattamento economico e progressione in carriera. Questa “rivoluzione rosa” aprì la strada, con la legge n. 380 del 20 ottobre 1999, all’ingresso delle donne in tutte le forze armate. «Oggi, nella Polizia di Stato – conclude il prefetto – circa quindicimila donne sono impiegate in tutti gli ambiti operativi, tecnici e dei sanitari, ricoprendo tutte le qualifiche. Da pochi mesi, per la prima volta, una donna è diventata vice capo vicario della Polizia»..
«La presenza delle donne nella Polizia di Stato appartiene alla storia recente. Come è accaduto per altre funzioni pubbliche la partecipazione delle donne all’esercizio di funzioni della sicurezza pubblica è stata ostacolata dal pregiudizio che determinate attività non fossero adeguate alla natura della donna. La legge 121 rimosse gli ostacoli giuridici alla effettiva parità delle donne nel servizio di polizia e simbolicamente marcò la fine dell’eguaglianza condizionata alle attitudini di genere. A distanza di quarant’anni è significativo notare che la presenza femminile nelle Forze di polizia è particolarmente qualificata. Caduti gli ostacoli di ordine giuridico, le donne con il loro lavoro, la loro dedizione e la loro professionalità hanno mostrato il contributo che sono in grado di offrire alla vita sociale, anche in questo ambito, che era loro tradizionalmente precluso».